21 giugno 2023

Restlessness



La quiete della sera abbraccia l'aria fresca che spira da nord. Annuncia pioggia, anche se il cielo è solo macchiato dalle nuvole. La promessa di un temporale estivo porta sempre con sé una malcelata speranza mista a un'inquietudine primitiva. 

Nascosto fra le mura di casa scorgo la luce dei lampioni filtrare dalla serranda abbassata e sento il vento sibilare mentre un podcast sboccato accompagna sottovoce il rassetto della cucina. Finite le pulizie di rito, mi abbandono sul divano. Scorro svogliato le pagine elettroniche di qualche social, rimbalzando fra video da trenta secondi che ormai sono diventati il metadone del mio disturbo di attenzione. Poco prima di dormire scorro fra i "ricordi da rivivere", annunci pubblicitari della mia vita confezionati dal me passato. 

Non lo faccio più da molto tempo, è accanimento terapeutico: lascio quanto posso all'oblio digitale. Sono convinto che sia necessario abbandonare alla deriva delle onde cibernetiche i milioni di bit che cullano quella che è per me ormai un'epoca distante. Si salva solo quello può essere salvato, tutto il resto verrà cancellato con una semplice riga di codice da un programmatore indiano, polverizzato da un blackout mondiale, lasciato essiccare nella silicon valley o in qualche server sperduto in un angolo del mondo civilizzato assieme ai commenti misogini di qualche quarantenne.

Va bene così, mi dico; è la degna fine della celebrità di quartiere del terzo millennio. 

Compare un nome sullo sfondo nero, fra i post sbiaditi ed invecchiati male, con un incomprensibile prologo arabo. Compare il tuo nome e devo sforzarmi a far affiorare un tuo ricordo, a contestualizzare il tutto con una data, un evento o qualcosa che possa accendere la mia memoria. Tocco il touch del cellulare; compare la tua foto. 

Ci ho messo del tempo riconoscerti, a ricollegare tutto. Devo scendere in profondità fatte di memorie confuse, complicate, sfocate. Tu stai lì, a fissarmi, vecchio e nuovo, come un bonzo di ferro con qualche macchia di ruggine, imperscrutabile. Un moderno gesucristo, noto e sconosciuto, corvino e cinereo profeta del tempo che è stato, vetusto baluardo di una generazione di maleaccasati sparsi per il continente, occhio nell'occhio, ventre nel ventre di balena che ha solcato il mare e la cui profezia è giunta a me tramite una sirena loquace di questo lembo di terra.

Tu stai lì, celeste e avorio sullo sfondo, in un'attesa incerta, in un attimo eterno in cui mi risvolto la pelle dal dentro al fuori e la stendo sulla corda del tempo che congiunge i sentieri di sabbia percorsi e da percorrere dalle mie e da altre decine di orme di migranti di terra che si rincorrono, si accompagnano, si separano, si uniscono, si salutano, si ritrovano, ballano e si dicono addio.

La pioggia arriva, si infrange sulle persiane a mezz'asta. Sporca i vetri, si abbandona lungo il corrimano del balcone e le assi del parapetto. La promessa si è resa verità, si è incarnata nell'aria e nello spirito sovrannaturale di una sera stanca di giugno. Una sera come tante, né calda né fredda, ricordo del giorno spento, monito del giorno a venire. 

Mi chiedo, carne nuda e viva, cosa sia quel sentimento languido e sconveniente che si avvolge su se stesso, nelle viscere scoperte del mio corpo. Guardo immobile lo specchio d'acqua, la risposta tarda a venire. Il profeta è muto, guarda occhio nell'occhio, medita ventre nel ventre di balena, forse non ha mai parlato e non ha lingua con cui articolare suoni. Come dice il proverbio, nessuno è profeta in patria. 

Tutto tace, sulla spiaggia dell'abbandono. La timida pioggia è già un ricordo. Lascia un senso di verità disvelata, di cruda rivelazione come lo scheletro di cetaceo che troneggia sul bagnasciuga. Osservo le ossa spoglie asciugare alla luna, pallide costole orfane mai nate, in una mite sera di giungo.

Quella che, in fondo, è una sera come tante. 

3 maggio 2018

La ballata degli Angeli caduti



Piccole gocce di respiro
Ornano la cornice della finestra

Si intravede nel risveglio
La meraviglia delle minuzie

Sul mondo rivolgo il primo sguardo
In testa il sonno degli dèi

È acerbo come la mia astuzia,
È incredulo come la mia colpa

Tristi Angeli senz'ali
Danzano scalzi sull'asfalto grigio

Nelle strade si affollano silenti
Il freddo marzolino li accompagna

Lasciano impronte di gazzella
Come coriandoli abbandonati

Lasciano impronte di gazzella
Sussurrando le emozioni dei loro padri

Misurano attenti il peso del mondo
Ognuno con la propria bilancia

Chi usa un contrappeso leggero
Forse non è adatto a questa vita

Chi usa un contrappeso leggero
Ha spazio per altri marchingegni

Macchine volanti e transatlantici
Al servizio di un'esistenza senza confini

Nel momento della genesi
Un dubbio avrà pur colto il Dio Creatore

Se questa sofferenza che egli prova
Dovrà esser condivisa, o nascosta

Nel crepuscolo delle lanterne
Un dubbio avrà pur colto il Dio delle Macerie

Se questa gioia che egli prova
Dovrà essere narrata, o dimenticata

Immobile davanti all'immagine riflessa
Salpo per un mondo che non si immagina

Guardo l'ultimo raggio di Sole
Recitando una preghiera al Dio Creatore

Gli Angeli accendono lumini
In fronte alle lapidi del cimitero

Guardano la fiamma appena nata
Consacrandola al Dio delle Macerie

Impressa a fuoco sulla retina
La stessa immagine per tutti

La nostalgia della separazione
La malinconia del giorno che muore


22 agosto 2017

Sunflower (In Loving Memory Of A.G.)



Mi sono sempre piaciuti i girasoli, alti steli immobili nei campi delle pianure. Da bambino pensavo che non potessero mai essere tristi, perché guardavano sempre il Sole. 

Da qualche tempo ci eravamo persi di vista, come capita agli adulti troppo presi dalle loro vite, inseguendo giorni uguali a se stessi. Succede, senza volerlo. Ci vedevamo di rado, scambiavamo qualche parola. Quando ci siamo conosciuti era diverso: le nostre strade si sono incrociate per qualche anno, assieme a quelle di molti altri. 

Non ho avuto modo di salutarti. Mi avevano detto che stava andando tutto bene, come si dice a chi incontri di fretta in strada. Pensavo di avere ancora tempo e mi sentivo quasi un estraneo senza il diritto di ripiombare all'improvviso nella tua vita. Questo lo rimpiango. Ho cercato in fondo alla memoria un'immagine di te, per ricordare com'eri. Tutti mi hanno detto di quanto eri felice oggi, e lo vedevo nelle tue risate rimaste uguali a quelle di quando ti ho incontrata. Io ho dovuto andare più indietro. 

Era il giorno dei test di ammissione all'università. Non conoscevo nessuno, mi guardavo attorno con un po' di agitazione. Tutto quello che ricordo di quel giorno è una ragazza alta e bionda, con un paio di occhiali rossi, in fila con me per un biglietto per il futuro. Non ti ho parlato, allora come adesso mi mancava il coraggio. Un solo pensiero in testa: "Chissà se ci incontreremo ancora?". 

Il primo giorno di lezioni eri lì, unica certezza di quel tempo remoto in cui abbiamo condiviso amici, litigi e serate, per poi dimenticarci pian piano uno dell'altra. Rimaneva qualche saluto, di fretta, quando ci scontravamo per strada. Quando l'unica cosa che riesci a dire è: "Tutto bene".

Se mi chiedessero qualcosa di te, avrei questa immagine. Una ragazza di vent'anni appoggiata ad un muro color avorio di un corridoio, che guarda il mondo da un paio di occhiali rossi e sorride, aspettando un biglietto per il futuro. Come un girasole nei campi senza confine, sempre rivolto verso il Sole. 

"Chissà se ci incontreremo ancora?", mi sono chiesto in questi giorni. Ma so che è già successo una volta, contro ogni probabilità avversa.

Fai buon viaggio, A.


Stefano

14 febbraio 2017

Beauty and the Beast



Il viso pallido
Il sorriso malinconico 

Una bellezza così perfetta

Estranea al mondo

Scandita da secondi immobili
Catturata in una pellicola 

Persa nelle parole del racconto
Persa nella faccia oscura della Luna

Gli occhi dell'autunno
Che si mostrano ai sognatori

I capelli color del grano
Che ondeggiano al sospiro dell'estate

Bruciano di vita 
Bruciano di gioia 

Nella festa del raccolto
Si celebra il passato glorioso 

Il fuoco degli dèi arde 
Le grida ed i balli festosi

Lascia cenere e profumo di cedro 
Lascia il silenzio alla notte 

Inganna il tempo avaro
Consacra gli eroi senza gesta

Il colore del mare in lontananza
Il colore del mare ed i miei occhi

Un ricordo vestito di cobalto
Il cielo eterno a cullarlo senza affetto


4 settembre 2016

Ring-ding-ding-ding-dingeringeding



"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Suona il cellulare, uno squillo secco. Numero sconosciuto. Rispondo pensando sia la solita chiamata dell'uomo call center, pakistano o calabrese. Mi aspetto l'offerta del mese, la proposta di un contratto oltre il vantaggioso. E invece niente, silenzio. Come fossi in un film sento una goccia di sudore che si affaccia sulla tempia, sale la paura di aver fatto qualcosa di sbagliato. Pensi ai demoni che hai seminato lungo strada. Pensi alle ex deluse, agli amici beffati e mandati a quel paese. Sono ripiombato negli anni novanta: gli anni dei telefoni fissi senza schermi ma con grandi ruote forate e numeri inchiostrati, dove non sapevi con chi stavi parlando finché non alzavi la cornetta.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Chiedo se c'è qualcuno, perché qualcuno dall'altra parte ci deve essere. C'è sempre stato. Con voce agitata dico che è un brutto scherzo. Un pessimo scherzo. Dico che non ho tempo da perdere anche se è una balla colossale. Ogni giorno i secondi mi cadono dalle tasche, dalle mani. Li perdo come da bambino perdevo le caramelle della nonna. In fondo qualcosa alla fine della giornata deve essere andato perduto. Non si può tenere tutto, non per sempre. 

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Il cellulare non emette suono. Sto camminando come un forsennato. Ora diventa una gara di resistenza, una sfida personale a chi riattacca prima. Ho capito che chiunque ci sia dall'altra parte si sta prendendo gioco di me e di colpo mi fermo. Mi chiedo il senso di questa guerra fredda con il signor Nessuno, con chi sicuramente non ha di meglio da fare, chi magari mi sta spiando da dietro un angolo e ride dietro alle mie spalle. La testardaggine mi obbliga a non cedere. Ho imparato a lasciare perdere in questi anni ma dentro me qualcosa mi impone di puntare i piedi. Stacco il cellulare dall'orecchio e osservo lo schermo. I minuti di conversazione aumentano seppur vuoti di parole.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Metto l'auricolare, lo calco sull'orecchio. Provo a percepire ogni vibrazione, ogni rumore in sottofondo. Forse è solo la mia immaginazione, forse un problema tecnico di qualche macchina automatica. Forse qualche nano burlone ruba le parole elettromagnetiche prima che possano arrivare a me e le nasconde in un libro di carta. Forse mi stanno parlando, proprio con quel silenzio, alieni che non hanno il dono della parola. Da un'altra epoca, da un'altra dimensione. La mia testa si apre e i fantasmi e le creature che vi abitano cominciano a circondarmi. Rivaluto i cospirazionisti, l'area 51, le scie chimiche, gli ufo. Chiedo consiglio al signor Tesla in persona che mi fa una pernacchia antipatica e alza le spalle ridendo; ma ridendo forte. Apre la bocca e si magia tutto quello che era appena comparso. Saluta alzando la tesa del cappello con due dita e saltella via a cavallo di un pogo giocattolo.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Torno nel posto dove mi ero lasciato, il cellulare all'orecchio. Vedo la gente che corricchia sulle punte dei piedi andando a cercare un riparo. Qualche goccia di pioggia cade leggera, qui nella nostra dimensione, nel nostro spazio, nel nostro tempo. Solo allora sento una voce, cristallina, che fa vibrare gli auricolari.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Dice solo questo. Riattacca nell'attimo successivo. Una voce androgina ma familiare, una voce che le raccoglie tutte. Una voce che non appartiene a nessuno. Mi duole la schiena. Una fatica allucinante mi assale all'improvviso, una fatica da lavoro in miniera. La pioggia si infittisce e non mi resta che assottigliarmi contro un muro cercando il riparo di un esile conicione a metri dalla mia testa.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

Non penso ad altro da giorni. Non di chi fosse la voce, penso solo alle parole e al loro peso. Perché in fondo quelle erano parole leggere, come lo sono tutte. Leggera era anche quella frase, trasparente come l'aria che respiro. Ci sono volte in cui non posso associare ai sentimenti nemmeno parole, figurarsi un colore. Poi perché uno soltanto? E se ogni sentimento fosse un'arcobaleno di colori, una moltitudine immensa e poi se scosso si mettesse a girare rapido su se stesso diventando bianco come il latte, bianco come la velocità della luce, bianco come i petali di una margherita nelle mani di un'innamorata? In fondo tutti i sentimenti sarebbero dello stesso colore. 

Sarebbe una gran bella beffa. 

Ogni tanto quando voglio capire qualcosa di più di questo mondo, quando mi capita di fermarmi e chiedermi il significato della giornata che sto vivendo, prendo il telefono e faccio un numero a caso. Quando rispondono ascolto le voci delle persone dall'altra parte. Alcuni riattaccano subito, altri imprecano, pochi bestemmiano, alcuni ridono.

E solo ai più pazienti finisco per chiedere sempre la stessa cosa.

"Lo sai qual'è il colore dei sentimenti?"

4 gennaio 2016

To Her - Remastered Edition


Visto che l'anno vecchio sta finendo ed il nuovo è dietro l'angolo ho deciso di fare pulizia fra le bozze del blog. A sorpresa, ho ritrovato un vecchio post che avevo rimosso a seguito di quella che oggi ritengo una semplice "scaramuccia fra bambini". Mi ha strappato un sorriso nella rilettura e quindi ho deciso di riproporlo. C'è dentro un po' de Il Piccolo Pricipe: un libro che mi lascia piuttosto indifferente, ma che contiene al suo interno qualche eterna verità sulle relazioni umane. 

Nonostante il pezzo fosse scritto abbastanza bene, almeno secondo la modesta opinione dei (pochi) lettori che erano capitati da queste parti, volevo cambiare qualcosa: rattoppare qualche strappo, ravvivarne il colore. Insomma, tirarne fuori qualcosa di buono grazie alla consapevolezza del poi. Ma in fondo un ricordo è un ricordo e nessuno ha il diritto di alterarne la percezione, neppure chi lo ha vissuto. Troverete solo qualche nuova pennellata qua e là per correggere qualche sbavatura, nulla più. Non mi sono mai lasciato cullare dalla nostalgia, quindi non aspettatevi malinconia, né rassegnazione. Sul fondo della bottiglia non si trovano sentimenti ma solo la consapevolezza della fine di una storia, come tante ce ne sono al mondo. 

Alla fine, parafrasando Murakami, quello che deve rimanere, rimane. Ma, più importante, quello che si deve perdere, si perde. 

Ed è giusto così.



To Her



Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "... piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe,
"io, non ti volevo far del male,
ma tu hai voluto che ti addomesticassi..."
"È vero" disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano"

Ricordo i suoi capelli color dell'estate che splendevano anche nelle giornate di pioggia. Il profumo di menta e dolcezza che l'accompagnava ogni volta che voleva mostrarsi ai miei occhi increduli. Ricordo il giardino nascosto ai piedi del castello, quasi fosse una fiaba medioevale. Ricordo la chiesa silenziosa sulla cima della collina, dove potevamo perderci nel silenzio della città. Ricordo la terrazza dove invece la città diventava nostra e nostra ancora. Ricordo il sottotetto caldo e afoso, in cui ci nascondevamo alla sera. Ricordo le labbra tinte di un rosa leggero leggero; i suoi occhi marroni e profondi che riflettevano la mia insicurezza. Ricordo le corse in macchina per prendere la corriera, perché per quanto durasse il pomeriggio il tempo non era mai abbastanza. Ricordo il guardarla nello specchietto della macchina allontanarsi di spalle, volerla rincorrere ma avere troppa paura. Ricordo osservarla girarsi e correre verso di me, e poi il nostro primo bacio.

Ricordo le rose gialle, i libri e i cd. Ricordo i litigi, il non essere mai abbastanza, il cercare qualcosa che distraesse da tutto il resto. Ricordo il prendere le cose troppo sul serio, le lacrime tinte di blu cobalto, la mia maglietta sporca. Ricordo le panchine e i prati, le parole che non le ho detto e quelle che invece avrei voluto. Ricordo le stelle che guardavamo mentre ero al telefono e sussurrava per non farsi sentire da chi le stava intorno, quasi avesse le labbra appoggiate al mio orecchio. Ricordo l'agitazione e la testardaggine, ricordo l'ansia e la disattenzione. Ricordo di averla persa da qualche parte nel mio continuo vagare, stanco del giorno e della notte. Ricordo l'esasperazione e il distacco.

L'altro giorno stavo leggendo una storia di cavalieri con armature brillanti, di draghi volanti, di torri dimenticate ornate da edera verde e di principesse dalle lunghe trecce. Cercavo fra le righe il lieto fine, dove ogni paura svanisce e il coraggio viene ripagato. Prima ancora che potessi terminare la mente ha cominciato a vagare e l'immaginazione ha risucchiato ogni parola scritta nel suo vortice di magia e disincanto. Cercavo il mio e il suo volto assieme ma non li ho trovati. Ero troppo occupato a combattere contro i mulini a vento per rendermi conto di cosa stava succedendo. Pensavo di sapere già la fine del racconto e per questo, di prendermi del tempo per conoscermi meglio. Ma le principesse non aspettano e i cavalieri si susseguono.

E io "non ho mai creduto che ci sia un lieto fine. Solo che prima o poi si termina al meglio che si può. Solo che nell'interagire sta sospesa la percezione dell'esserci". Volevo dire così tante cose che probabilmente sarei rimasto in silenzio ad osservare, come mio solito. Volevo riparare agli sbagli e agli errori perché vivo nel sogno irrealizzabile che alla fine qualcosa di buono può sempre succedere.

E noi? Noi dovevamo rubare parole alla notte, bruciare e ballare come un fuoco sulla spiaggia, riposare assieme come la rugiada del mattino sulle foglie assonnate, e poi rinascere ancora, temprati dal tempo, nella più colorata primavera delle nostre anime.

Nulla più.

Ma questa, che voglia crederci o no, è un'altra storia. Non più la mia.

" [...] Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha..."
"Che cosa vuol dire?"
"Quando tu guarderai il cielo, la notte,
visto che io abiterò in una di esse,
visto che io riderò in una di esse,
allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero.
Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!"
E rise ancora.
"E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre),
sarai contento di avermi conosciuto.
Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me.
E aprirai a volte la finestra, così, per il piacere...
E i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere
guardando il cielo. Allora tu dirai:
"Sì, le stelle mi fanno sempre ridere!"
e ti crederanno pazzo."T'avrò fatto un brutto scherzo..."
E rise ancora."Sarà come se t'avessi dato,
invece delle stelle,
mucchi di sonagli che sanno ridere..."
Antoine de Saint-Exupèry

7 dicembre 2015

Short Dreamlike Delirium (Breve Delirio Onirico)



Nell'aria si diffonde l'odore di tiepido dei tramonti rosso acceso. Nella rete della loro tranquillità una moltitudine di lacrime viene purificata. 

Solo un lontano ricordo sopravvive sbiadito, assieme a qualche stridio di cicala accoccolata nell'erba alta.

Un ritmato gioco di sfumature avvolge l'orizzonte, fino alla cima del mondo che il mio occhio conosce. Sembra strappare l'Inferno dal ventre della Terra. 

Non c'è violenza nell'esplosione immobile. La delicatezza della carezza di una madre. 

È un frammento di memoria che riempe la nostra parte di infinito, quaggiù, al di qua del Paradiso.

3 novembre 2015

Stillness



- "Cosa cerchi in fondo a quella tazza?"

Sbatto gli occhi velocemente e guardo mia sorella. Non so per quanto tempo ho fissato il cerchio lilla lasciato da una tisana di un non ben precisato gusto. E' uno di quei momenti in cui ti perdi in un'immagine, una qualunque, finché qualcuno non te ne tira fuori a forza con un brusco scossone. Hai messo in pausa il mondo dal suo continuo movimento e sarebbe giusto che solo tu decidessi quando restituirgli vita, ma quaggiù non ci è concesso molto e questo di certo no.

- "Vestiti, che dobbiamo andare! Sei pronto?", sento rimbeccare dall'altra stanza. 

Mi alzo svogliato. Devo sempre andare da qualche parte ultimamente. Il medico, in palestra, in università. Alla fine della giornata vedo tutti i posti assomigliarsi come nelle foto delle riviste di design. E' tutto uguale, tutto ripetuto, ritmato, reinterpretato. Persino i dettagli che dovrebbero distinguerli l'uno dall'altro finisco per essere occhi senza colore o dita senza impronte, tutti uguali come piccole perle sferiche, perfette, appese come decorazioni impercettibili ai lobi delle stanze e degli atrii.

- "Sempre in ritardo sei... Ti vuoi muovere?"

Non sopporto più le domande. Poche sono interessanti e ancora meno sono quelle intelligenti. Le persone ti chiedono sempre le cose più ovvie. Non hanno il coraggio di approfittare nemmeno dei rapporti più stretti per paura di incrinare l'intimità conquistata a fatica nel tempo. L'intimità non è altro che una corda sospesa nel vuoto tesa fra persona e persona. Se vuoi avvicinarti non devi avere paura dei passi da fare, anche piccoli. Devi testare l'equilibrio.

- "Hai voglia di uscire? Altrimenti io sto anche a casa eh!", minaccia con voce acuta mia sorella. 

Comincio a spogliare i vestiti nell'armadio e decido per colori tenui, quasi anonimi, ma delicati. Equilibrio; è sempre stata una parola che racchiude in sé un'incredibile forza, una magia arcaica che si perde nel rumore delle serpentine dei refrigeratori, delle marmitte delle automobili, nelle persiane elettriche che si abbassano al tramonto per nascondere le viscere delle nostre abitazioni piene di quelle stanze identiche fra loro, identiche a se stesse. Appese alle finestre solo nuvole di stoffa, ancorate alla realtà che custodiscono immobili, sempre sull'attenti e senza ombre o pieghe. Nella loro austerità si nasconde la tristezza velata di chi non vuole condividere i segreti che gesta in grembo, come un vigliacco, da tempo immemore e forse da più di una vita intera.

- "Lavala quella tazza, per favore... "

Non mi va. Non voglio togliere quello che è stato aggiunto anche se superfluo, come un cerchio colorato, qualche increspatura di colore sui bordi, la riga irregolare di una goccia scivolata sulla ceramica lucida. 

- "Allora, andiamo?", dice impaziente.

Sono ancora indeciso, rallentato. Mi chiedo se in quella sospensione, nella solennità di quell'attimo in cui tutto era immobile cercavo un indizio di felicità, illudendomi di trovarla sul fondo di una tazza di primo mattino. La felicità è un fiore di carta nato da infinite pieghe che muore nell'istante stesso in cui si schiude, muore nel fuoco vivo del rancore covato dal mondo intero. Ogni petalo si contorce e si fonde con la fiamma, dissolvendosi in frammenti di cenere che volano in vortici al cielo. La felicità è come la perfezione: rapida, veloce. E' la sensazione dell'eterno che filtra l'essenza della gioia condensandola in una lacrima di estasi. E' un istante, nulla più di un istante. 

- "Eccomi, arrivo, devo solo prendere il cappotto..", rispondo.

Il cappotto di lana mi fa sentire subito al caldo, una coccola inaspettata. Appena metto piede fuori dalla porta mi si gela il viso, la pelle fredda. 

- "Corri che arriva il bus..", suggerisce mia sorella, e scompare a grandi passi.

30 aprile 2015

Der Untergang



Come siamo arrivati a questo punto? 

Abbiamo ventott'anni portati a fatica dietro barbe incolte, risvolti ai jeans che ti puoi permettere solo se hai caviglie da ballerina e camicie con fantasie vomitate da improbabili artisti. Un retaggio del diffuso hipsterismo che ha colpito duro la società con un pugno ben assestato nello stomaco. Una battaglia persa ancora prima di annunciare l'intenzione della guerra: il rigetto del conformismo che si conforma a sé stesso; in due parole, una caricatura. 

Ci siamo arrivati di soppiatto, senza rendercene conto. Come quelle gite domenicali che fai da piccolo, legato ad un seggiolino di sicurezza in una familiare con tutta la famiglia attorno. Non sai perché sei lì, non sai cosa stai facendo, non sai dove stai andando. Sei perso nel paesaggio che scivola sul finestrino come un 18 millimetri a cui hanno applicato un filtro Instagram per renderlo più reale. Ad un tratto la macchina frena, scendi, ti svesti e sei davanti ad una pozza d'acqua con trecento tedeschi bianchi come il latte e duri come il diamante che ne ornano la riva. Sei lì, punto.

E tu non sai nemmeno se ci volevi venire.

Ti trascinano in cima al costone a sud della zona balneare. Di solito è lo zio che vuole fare il simpatico a tutti i costi perché non ha figli suoi e deve compensare cercando di uccidere quelli degli altri. Ti sporgi e l'occhio affoga nei metri che separano in verticale la terra dall'acqua. La pupilla si lascia inghiottire dall'iride, investita dalla luce riflessa con una violenza inaudita. Un passo indietro per il bagliore e quasi si perde l'equilibrio. Tutti si buttano e allora prendi la rincorsa. 

E tu non sai nemmeno se volevi saltare.

L'acqua è fredda. Non tocchi e fai fatica anche a nuotare. Ti viene in mente che hai anche fatto colazione. Abbondante. Ma ormai ci sei dentro fino al collo. In certi momenti anche sopra il collo, quelli in cui respiri oltre all'ossigeno anche l'idrogeno: per capirci, quando affondi perché non hai più forze. Due parole ti risuonano in testa: "colazione" e "abbondante". Perché, in fondo, non sai fare altro che ripeterti.

Come siamo arrivati a questo punto? 

Abbiamo ventott'anni, l'età in cui ti aspetti che andrà tutto bene perché, come diceva un grande, hai passato l'età del tragico. "I poeti muoiono a vent'anni e le rock star a ventiquattro". E tu non sei mai stato né poeta né musicista. Ma fai quello con l'orecchio fino e la passione per i libri, ascoltando band che nessuno ascolta e leggendo libri che nessuno legge, credendo che in fondo a qualcuno possa interessare come argomento di conversazione. Perchè è facile fare il sapiente davanti agli angeli della desolazione, con il contraddittorio assente e la platea ignorante che ascolta personaggi ancor più ignoranti cresciuti cibandosi del proprio sé.

Di profondo non c'è mai stato nulla, nemmeno qual lago. Di profondo non è mai esistito nulla, ché tutto è già stato scritto o detto o dovrà essere scritto ed essere detto. L'istante in cui stiamo esistendo è già passato e futuro e noi non lo sappiamo perché crediamo sia eterno. Ventott'anni sono un preludio, un allegro minuetto che si diffonde senza forma e senza tempo in una dimensione metafisica: invenzione, pura invenzione dell'intelletto. Perché la più dura verità è che tutto è un'invenzione. E di questo ci beffiamo finché non incappiamo in "certe bizzarre occasioni e circostanze in questa strana mistura che chiamiamo vita in cui un uomo prende l'intero universo per un'immensa burla, sebbene l'arguzia di ciò non riesca a percepirla che indistintamente, e nutra più d'un sospetto che la burla non sia alle spalle d'altri bensì alle sue."

Perché, in fondo il massimo pensiero a cui abbiamo aspirato nella confusione generale è stato solo uno: "colazione" e "abbondante".




29 giugno 2013

"View from heaven"



c'era una finestra aperta stasera in paradiso. pochi vi si sono affacciati per vedere cos'era quel frastuono che saliva veloce dal fondo del mondo. una volta lassù si perde la curiosità perchè tutto è svelato e la si dona ai bambini in fasce, timorosi delle ombre che riescono a scorgere fra le figure distorte di parenti premurosi che si accalcano in fronte ai loro visi. 

mi chiedo se anche tu hai smesso di cercare quello che ti rendeva felice.

qualcuno ha quasi imprecato perchè sentiva uno spiffero salire beffardo e strafottente da sotto la tonaca bianca e scalare la schiena saltando a ogni vertebra sporgente fino a mordere il collo poco prima dell'attaccatura dei capelli. poi si è ricordato che l'abito fa il monaco ed il luogo richiede una certa coerenza di fondo, continuando a camminare incurante. guardare da dove venisse quell'alito d'aria costava troppa fatica.

mi chiedo se anche tu ogni tanto sbeffeggi questi vecchi santi svogliati.

il cielo era così terso che potevo vederci attraverso, anche nel buio della notte. è il momento migliore per cercare di scorgere qualcosa. di giorno dicono che c'è troppo riflesso e puoi solo specchiarti, nemmeno troppo bene. 

mi chiedo dove cammini quando le nuvole spariscono dal cielo.

la finestra se la sono dimentica aperta, lassù in paradiso. da qui, ora, lo vedo chiaramente. la tenda sbuffa in continuazione, stufa dell'aria che la tormenta senza sosta. la cervicale di qualche santo comincia a spazientirsi. qualcuno fa fatica a prendere sonno. 

prima di andare a dormire ho urlato qualcosa quaggiù, dal fondo del mondo.

mi chiedo se, fra il rumore e la confusione, sia riuscito a sentirlo anche tu...