La quiete della sera abbraccia l'aria fresca che spira da nord. Annuncia pioggia, anche se il cielo è solo macchiato dalle nuvole. La promessa di un temporale estivo porta sempre con sé una malcelata speranza mista a un'inquietudine primitiva.
Nascosto fra le mura di casa scorgo la luce dei lampioni filtrare dalla serranda abbassata e sento il vento sibilare mentre un podcast sboccato accompagna sottovoce il rassetto della cucina. Finite le pulizie di rito, mi abbandono sul divano. Scorro svogliato le pagine elettroniche di qualche social, rimbalzando fra video da trenta secondi che ormai sono diventati il metadone del mio disturbo di attenzione. Poco prima di dormire scorro fra i "ricordi da rivivere", annunci pubblicitari della mia vita confezionati dal me passato.
Non lo faccio più da molto tempo, è accanimento terapeutico: lascio quanto posso all'oblio digitale. Sono convinto che sia necessario abbandonare alla deriva delle onde cibernetiche i milioni di bit che cullano quella che è per me ormai un'epoca distante. Si salva solo quello può essere salvato, tutto il resto verrà cancellato con una semplice riga di codice da un programmatore indiano, polverizzato da un blackout mondiale, lasciato essiccare nella silicon valley o in qualche server sperduto in un angolo del mondo civilizzato assieme ai commenti misogini di qualche quarantenne.
Va bene così, mi dico; è la degna fine della celebrità di quartiere del terzo millennio.
Compare un nome sullo sfondo nero, fra i post sbiaditi ed invecchiati male, con un incomprensibile prologo arabo. Compare il tuo nome e devo sforzarmi a far affiorare un tuo ricordo, a contestualizzare il tutto con una data, un evento o qualcosa che possa accendere la mia memoria. Tocco il touch del cellulare; compare la tua foto.
Ci ho messo del tempo riconoscerti, a ricollegare tutto. Devo scendere in profondità fatte di memorie confuse, complicate, sfocate. Tu stai lì, a fissarmi, vecchio e nuovo, come un bonzo di ferro con qualche macchia di ruggine, imperscrutabile. Un moderno gesucristo, noto e sconosciuto, corvino e cinereo profeta del tempo che è stato, vetusto baluardo di una generazione di maleaccasati sparsi per il continente, occhio nell'occhio, ventre nel ventre di balena che ha solcato il mare e la cui profezia è giunta a me tramite una sirena loquace di questo lembo di terra.
Tu stai lì, celeste e avorio sullo sfondo, in un'attesa incerta, in un attimo eterno in cui mi risvolto la pelle dal dentro al fuori e la stendo sulla corda del tempo che congiunge i sentieri di sabbia percorsi e da percorrere dalle mie e da altre decine di orme di migranti di terra che si rincorrono, si accompagnano, si separano, si uniscono, si salutano, si ritrovano, ballano e si dicono addio.
La pioggia arriva, si infrange sulle persiane a mezz'asta. Sporca i vetri, si abbandona lungo il corrimano del balcone e le assi del parapetto. La promessa si è resa verità, si è incarnata nell'aria e nello spirito sovrannaturale di una sera stanca di giugno. Una sera come tante, né calda né fredda, ricordo del giorno spento, monito del giorno a venire.
Mi chiedo, carne nuda e viva, cosa sia quel sentimento languido e sconveniente che si avvolge su se stesso, nelle viscere scoperte del mio corpo. Guardo immobile lo specchio d'acqua, la risposta tarda a venire. Il profeta è muto, guarda occhio nell'occhio, medita ventre nel ventre di balena, forse non ha mai parlato e non ha lingua con cui articolare suoni. Come dice il proverbio, nessuno è profeta in patria.
Tutto tace, sulla spiaggia dell'abbandono. La timida pioggia è già un ricordo. Lascia un senso di verità disvelata, di cruda rivelazione come lo scheletro di cetaceo che troneggia sul bagnasciuga. Osservo le ossa spoglie asciugare alla luna, pallide costole orfane mai nate, in una mite sera di giungo.
Quella che, in fondo, è una sera come tante.