6 dicembre 2010

Glancin' Summer

gli occhi stanchi sono ancora socchiusi per il poco riposo. le gambe pesanti. la spalla dolorante. questa mattina il risveglio è dei peggiori e la sveglia continua a suonare crudele dall'altro lato del letto. cammino piano fra le stanze ancora avvolte dal buio della mattina. accendo qua e là lampade elettriche che infiammano la loro resistenza, accendo il microonde e scaldo dell'acqua per un thé, sperando che mi aiuti a riprendere vita. dalla credenza prendo una bustina per infusi, pensando che fa abbastanza freddo per convincermi a vestirmi con qualcosa di più pesante della mia maglietta.

mi sono sempre piaciuti i calzini colorati, quelli a strisce, di cotone, che sembrano avvolgere i piedi con un arcobaleno. ricordano le giornate estive passate distesi su prati d'infinita tessitura verde che in autunno si riempiono di cilindrici mausolei di fieno giallo spento. sembrano tanti piccoli sepolcri che i contadini hanno deciso d'abbandonare per commemorare la natura che via via va spegnendosi in tinte calde come le braci di un focolare. e le braci ricordano i cibi cotti in un involucro di alluminio, semplici come la vita d'un tempo vissuta in case segnate dalle venature del legno e dal profumo di resina. e il legno ricorda alberi sinceri come il canto delle cicale le sere d'agosto, abbattuti da boscaioli rudi con asce e seghe dai denti spuntati.

quelle calze variopinte proteggono dal freddo invernale e scaldano la pelle nuda anche solo guardandole, mentre fuori dalla finestra pioggia bianca continua a scendere e i camini mischiano il loro fumo denso con la nebbia grigia che nasconde tutto quello che circonda con i suoi tentacoli informi. mi alzo dal letto in cui mi ero rituffato e giro l'angolo. le tazze enormi riposano a testa in giù su una pezza di tessuto, in cucina, dopo la colazione. alcune hanno qualche sbeccatura. una invece mette in mostra spigoli vivi di ceramica al posto del manico, esibendo la sua unicità in un mondo di tazze fatte tutte nello stesso modo.

sulla scrivania qualche libro aperto che svogliato racconta delle formule matematiche di dubbio gusto, e in un angolo nascosto dall'ombra della lampada da studio, un disegno a matita che ritrae un viso d'angelo, distratto a guardare nel vuoto e a nuotare in pensieri così lontani che se parlassero s'udirebbero appena. i tratti neri e grigi si intrecciano dando vita a una trama di grafite così fitta che a stento si riescono a distinguere i segni. le matite s'incrociano in rigidi origami astratti e lì vicino, quasi come intrusa, una penna blu senza il suo cappuccio.

cercavo qualcosa questa mattina, nel mio agitato pellegrinaggio domestico. cercavo di comprendere l'intero universo dal fondo della scatola da scarpe in cui siamo stati rinchiusi. cercavo una parola per definire un qualche concetto che nemmeno ricordo. pensavo a un susseguirsi di suoni che riempisse la bocca per distrarla dal silenzio del luogo in cui mi trovavo. cercavo il senso delle cose nel fiocco di neve che sboccia da una goccia d'acqua nata dal fondo del mare. forse cercavo un senso e basta, senza troppi fronzoli o abbellimenti vari. mettere una bella cornice ad un'opera d'arte non fa che svilire il lavoro dell'artista, perchè ogni cosa deve presentarsi sincera ed onesta se vuole mantenere la sua integrità. cercavo tutto questo, e nulla più.

è tardi. prendo una quaderno che sa d'impressionismo e lo nascondo nello zaino mentre esco di corsa ascoltando una canzone di cui non ricordo il titolo, e perdendomi nelle sue note confuse mi torna in mente che questa mattina, ricadendo nella realtà, cercavo un sogno dentro un sogno, per cullare la giornata che si affacciava impertinente da dietro una montagna.

17 agosto 2010

Sea

la luna macchiata di caffè ancheggia nel cielo pieno di lucciole distanti anni luce. è tardi, l'orologio degli umani scandisce le ore svogliato, non dorme mai e sbadiglia ad ogni rintocco sordo, mentre quello degli dei riposa senza lancetta alcuna. è ovale, color ciano, con una grande pancia scoperta. il silenzio serpeggia per le strade deserte, benedicendo le case con le tapparelle abbassate. lontano, da qualche parte, un treno viaggia guidato da un conducente distratto che sta leggendo un libro di poesie d'amore scritto in francese, sottovoce.

in piedi vestito di un pigiama sgraziato cerco qualche pagina di conforto, invecchiata sulle mensole di rovere. cerco lettere scritte dai soldati al fronte alle loro famiglie, vaneggiamenti urbani di pederasta con il pallino della storia della loro nazione, sonetti di nobiluomini inglesi composti in epoca vittoriana. quando finalmente decido di sedermici, la poltrona sprofonda, soffiando stanca. il salotto profuma di buono, come se dei semi di cacao si fossero uniti in matrimonio con baccelli di vaniglia per deliziare il mio olfatto.

se nel partire avessi salutato i tuoi occhi color abete persi nel vuoto dell'addio con una canzone, da un vagone in movimento sulle rotaie della tua vita, mi ricorderesti ancora con rabbia? e se fossi stato indulgente con le attenzioni assillanti, così forti da rompere il muso duro che stampavo sul mio viso, mi rivorresti indietro, Monnalisa?

il mio ritorno è solo per te: stavo bene dove ero e non avevo bisogno di nessuno. nessuno, nessuno, nessuno. ero un negro che ballava e cantava suonando tamburi di pelle d'animale alla luna coraggiosa del mio continente, della mia isola - solo mia! - in cui nessuno poteva avventurarsi se non con il timore di lasciarsi ogni cosa alle spalle. io sono sempre stato un nibbio orgoglioso e volavo rasoterra spaventando tutti. perchè, mi chiedi? perchè mi andava, tesoro! perchè volevo beccare la gola dei topi randagi che si mettevano sulla mia strada pensando di poter scappare cercando rifugio nelle loro tane buie, sotterranee. e io, ben lo sai, non cercavo cunicoli in cui infilarmi.

e tu, Mononoke, mi terresti nella tasca dei tuoi pantaloni, quella cucita da tua nonna prima di morire e rinascere come daino, se potessi? mi terresti stretto a te, nascosto da tutto il caos della tua metropoli, costruita dagli uomini per distrarsi a vicenda? mi terresti al sicuro del tuo affetto disinteressato, che doni anche al primo idiota che ti sorride e ti dedica una canzone? lo merito, sai?

posso farlo anch'io e sarebbe la più bella canzone che tu abbia mai ascoltato; perchè la mia non parlerebbe d'amore ma di me e te, semplicemente. non sarebbe messa in musica ma suonerebbe per sempre nella tua testa, ogni qualvolta penseresti al nostro primo appuntamento - sotto le stelle di Novembre - e se qualcuno tentasse di rubartela tu potresti dire che non è mai esistita, perchè tutto il mondo messo assieme in silenzio comunque non potrebbe sentirla.

posso fare mille e mille cose per te, Principessa, ma tu continueresti a regalare sorrisi al primo uomo che porge una rosa sbiadita, che ti compra con un po' d'attenzione nel meriggio stanco della tua giornata. e allora se ci fossimo incontrati in un altro tempo, allevato da madre serenità, ci saremmo amati con la stessa passione? se ci fossimo incontrati in un giorno di pioggia, riparati da grandi ombrelli tondeggianti, ci saremmo fermati a parlarci con voce rotta dall'emozione? se anch'io avessi giocato con te avrei ottenuto un tuo bacio? non l'avrei voluto, sai, ad ogni modo.

perchè? - ti chiederai...

perchè non posso smettere di cercare un amore vero che non so trovare. non perchè non esista per me, ma perchè sono troppo distratto e svogliato per impegnarmi a coltivarlo e preferisco gioire della mia risata dolce che allieta i pomeriggi, piuttosto che lavorare come uno schiavo devoto alla monotonia di una storia di due persone un tempo amanti sinceri. perchè ho bisogno di un mare in cui perdermi prima di trovare qualche risposta. perchè ho bisogno del mio sole e della mia ombra, del mio pasto frugale e del mio libro muffito sulle ginocchia. perchè come un neonato piango ogni volta che vengo al mondo e devo soddisfare il mio desiderio edonistico di corteggiare ogni donna dalle labbra colorate di rosso.

perchè come te, Nausicaa, non posso esser di nessuno, se non di me stesso..

12 agosto 2010

Dream

le labbra sottili si muovono ondeggiando sul viso pallido, che contrasta con l'abbronzatura appena accennata del corpo stanco. la voce trema imbarazzata e i secondi prendono le sembianze di una grigia era geologica. lo stregone ha pronunciato il suo verdetto dalle colline gialle come il grano e rosse come campi di papaveri sterminati. la pelle si rizza facendo sembrare lo spaventapasseri di paglia un gatto impaurito. gli uccelli si levano in volo maestosi spiegando le ali lunghe metri e metri e oscurando il cielo rabbioso. piove cenere girgia e il vento scoperchia le teste mostrando cervelli rosei irrorati di sangue d'animale.

qualcuno è chino a vomitare fra imprecazioni e gridi d'odio che raggiungono lo stregone alla velocità del supersuono. le spade e gli scudi vengono battuti come piatti sulle armature e sugli elmi che si infiammano bruciando le pupille incredule dei più deboli. il fuoco dell'ambizione crepita mentre le bestie assonnate sudano e bisbigliano preghiere sottovoce. le braccia dello stregone piene di campane e campanelli e campanacci si muovono frenetiche facendo cadere a terra un milione - no! - un miliardo di tintinnii. rotolano e ruzzolano giù dalla colline blu come il cobalto più puro delle miniere del nord. i bambini si rifugiano sotto le giostre arrugginite del parco sporcandosi le mani e le ginocchia di fango.

i guerrieri della notte non possono più aspettare e escono al crepuscolo, compatti; come legione di missionari animati dalla fede cantano inni alla gioventù passata a distruggere fegati e polmoni e pancreas e reni. cantano malinconici come gli innamorati prima di lasciarsi e baciano le loro mogli e le amanti come se dovessero morire oggi. ma lo stregone ha parlato: nessuno ha la spada di damocle appesa sopra le cervella. le vecchie, i cui occhi vedono ormai chiazze di colori ingialliti dal tempo e dal dolore, cuciono vestiti da sposa per le loro figlie. sono belli come i diamanti tagliati dai mastri olandesi, ornati di pizzi e merletti, alcuni con sbuffi che si appoggiano annoiati uno sopra l'altro. il filo passa fra i tessuti come se avesse memoria del percorso da seguire, si incrocia e si nasconde, alle volte veloce e silenzioso come il felino sulle tracce della preda, altre maldestro come un obeso in una cristalleria di gnomi irlandesi.

il corno richiama i pretendenti sul campo di battaglia. lo spaventapasseri incrocia gli occhi e storce il naso. i drappi di stoffa che pendono dai vestiti lerci sventolano come bandiere multicolore, una per ogni razza della nazione. intona un requiem per i caduti della battaglia dei grandi monti. sa che riposano custoditi dalla neve e percorsi da brividi gelidi per punizione all'arroganza delle loro pretese. un agricoltore paesano non può combattere se non con zappe e badili in sella a ciuchi che ragliano e si vendono per una mezza carota.

lo stregone mette a bollire una pentola d'acqua d'oro zecchino con larghe maniglie che pendono ai fianchi. accatasta legna, sempre di più, getta abiti, libri di religione e di politica, stinchi di cadaveri, femori rubati da tutti gli ossari del mondo. brucia poesie e pometti d'amore, brucia le parole dei saggi che hanno cantato la bellezza delle stelle delle sere d'agosto e la dolcezza del canto delle cicale. brucia i quadri dei grandi accademici liberando le figure immortalate nelle tele. brucia le tempere e i colori ad olio, le batterie ossidate dei camion che viaggiavano sulle autostrade del futuro da città in città; brucia i chilometri percorsi dai viaggiatori incalliti con le loro tende e i loro sacchi a pelo. brucia i viaggiatori stessi che stanchi hanno ceduto alle litanie del dio orfeo. dà alle fiamme i miti degli uomini e degli orchi, i trapezi dei nomadi circensi e le sbarre d'acciaio delle gabbie, i lucchetti di tutti i cancelli delle pianure meridionali.

in preda all'estasi del distruttore scava a mani nude una fossa profonda come l'inferno, le unghie sporche di terra. vi seppellisce le esequie delle religioni pagane, onorandole con una lacrima che si trasforma in fiume di speranza. mette la mano in tasca e con un gesto degno del più teatrale prestigiatore estrae un flauto di ebano, che porta alle labbra mentre dilata il diaframma.

suona un blues stonato e le fiamme cominciano a ballare al ritmo malinconico di quella melodia. le distese d'erba diventano indaco intenso e arcobaleni sbiaditi spuntano come piante di fagioli messicani e a poco a poco prendono colore. lo stregone ne afferra uno per la coda e lo pizzica come un strumento a corde. è il tempo di danze latinoamericane! gli aborigeni delle isole dei monsoni lanciano gli scudi e abbandonano le lance avvelenate ammansiti come serpenti a sonagli. i vichinghi della penisola degli orsi bianchi innalzano i boccali di sidro e li scolano d'un fiato. nessuno deve morire, non oggi.

lo stregone riempe la fossa con l'acqua incandescente e si tuffa. nuota fino al fondo, sembra un delfino dell'oceano indiano, e riemerge poco dopo, vestito con un completo nero cucito su misura e le scarpe di pelle di pitone, appuntite con un temperino comprato al mercato delle pulci. lo stregone è diventato un mago. le feste proseguono condite di alcool e erba, di suoni e schiamazzi. nessuno è morto, non oggi almeno. lo stregone si siede e appoggia la schiena sul cumulo di carboni ardenti.

"cosa vuol dire sognare?" - mi chiede mentre si accende una sigaretta.

"sognare è suonare un arcobaleno su colline color indaco." - rispondo.

"prendi..." - e mi porge il pacchetto.

12 luglio 2010

Whale

mi sono sempre chiesto come sarebbe viaggiare per il mondo dentro la pancia di una balena: essere fagocitato da un cetaceo gigantesco - una megattera, per esempio - e solcare i mari giocando a fare il pirata. dev'essere la voglia di partire che gioca qualche brutto scherzo al cervello sotto pressione, e mescola realtà e fantasia come un alchimista di altri, lontani tempi.

mentre sogno di essere il terrore dei sette mari, cammino a piedi nudi sull'erba tagliata di fresco: un ossimoro vivente. nel tragitto il pizzicore risveglia le estremità abituate a comode suole di gomma, richiamando voraci istinti primitivi. è come se un volto selvaggio stesse emergendo dal nulla, un messaggio subliminale impresso nei geni corrotti dalle comodità casalinghe.

disteso immobile, sento il sole bruciare la pelle e l'aria spegnerla prima che divampi un incendio. uno spruzzo d'acqua mi coglie di sorpresa, impertinente, rinfrescando per un momento la mia lucidità annebbiata. le betulle scosse dal vento tintinnano come un carillon a molla; è una lenta sinfonia estiva.

le gocce d'acqua ornano la bottiglia che riposa sotto l'ombrellone. mi mette paura per come si erge mastodontico e austero, ma il suo ciondolìo distratto in qualche modo mi rassicura. per un attimo mi convinco di sentire profumo di mare, quel profumo di crema abbronzante, sabbia, sale e pelle dorata che sussurra estate ogni volta che lo respiri.

le infradito abbandonate una sopra l'altra, l'asciugamano disteso con qualche increspatura qua e là e l'orlo sollevato, le sedie vuote davanti al piccolo tavolo di plastica inutilizzato. mi siedo sull'altalena rossa e dondolo, pensando che qui sta cambiando un po'tutto.
penso alle serate passate a mangiare ciottoli di porfido e asfalto cambiando continuamente persona, saltando di posto in posto per cercare una qualche novità, immaginandomi a torto figlio di una beat ormai estinta. penso ai balli e alle risate che rispondevano ai commenti sadici e esagerati, fatti senza cattiveria per dimenticare la giornata che ci siamo lasciati alle spalle.

penso a partire. mi immagino i grattacieli, che come giganti di cemento e vetro ci guarderanno dall'alto, pronti ad essere demoliti dai flash delle macchine fotografiche di turisti troppo zelanti e avari di ricordi. l'essere trascinati da un fiume di persone nella notte piena di insegna luminose alla ricerca di qualche quartiere naive in cui riposare le gambe stanche e chiacchierare con qualche sconosciuto. le corse in metro mentre assorti si cerca una corrispondenza fra il nome della fermata e la cartina omaggiata da un punto informazioni. navigare nelle vie più insolite alla ricerca di un attracco per rifocillare le bocche affamate e avide di sapori esotici, o quanto meno estranei abbastanza al gusto comune da sembrare ricercati.

prendo la benda nera per coprirmi un occhio, una bandana nera con teschi ricamati diventa un prezioso girocollo, lo spadino di plastica è infilato nella cintura dei pantaloni larghi e consunti. carico qualche provvista sulla scialuppa, una rete da pesca, una foto per non sentire nostalgia, sperando che nel tragitto qualcosa abbia abbastanza fame da volermi mangiare.
mentre parto per questo viaggio improvvisato mi accorgo che la voglia di avventura continua a giocare irriverente con pindariche fantasie infantili. il sole continua bruciarmi la pelle lattiginosa, senza mostrare alcun riguardo, mentre sono disteso su un asciugamano increspato.

mi chiedo davvero come sarebbe viaggiare per il mondo dentro la pancia di una balena...



20 giugno 2010

Little Red Car

non ricordo molto di quel giorno. solo molto rumore, le mani fisse sulle orecchie mentre il corpo si contorceva urlando. non ricordo le lacrime scendere e bagnare la punta delle scarpe. non ricordo il colore dei tuoi capelli, il tuo profumo condensato nell'aria attorno.

scuotevo la testa a destra e a sinistra. ripetevo che stava andando tutto per il verso giusto. guardavo le statue immobili e la piazza viva e popolata che vociava caotica. cercavo di rassicurarmi dicendomi che il tempo richiedeva coraggio e che il dolore lo avrebbe portato via il vivere, caricandoselo sulle spalle.

ricordo la disattenzione e l'incomprensione, il prendere strade separate. ricordo il treno che partiva mentre io sedevo sulla panchina di marmo della stazione. la sigaretta accesa e il sole mattutino che irraggiava tutto lo spazio aperto. il bambino accanto a me giocava da solo con una piccola Ferrari rossa, la vernice scrostata. Zigzagava sulle mattonelle di porfido grigie dal disegno banale.

pensavo di aver già vissuto perché la vita mi spingeva a saltare e guardare avanti. pensavo di aver liberato ogni cosa dall'apparenza che l'offuscava. pensavo di vedere il colore dei fiori in ogni sua sfumatura più sottile e impercettibile.

non ricordo il giorno: non sono mai stato bravo con le date. doveva essere inverno perchè il freddo avvolgeva ogni cosa. il cappotto verde non bastava a trattenere il caldo e i brividi prendevano il sopravvento. facevo ordine fra i cassetti della memoria e l'euforia della nuova avventura ristabiliva equilibrio fra i pensieri.
il bambino era ancora assorto nella sua immaginazione; faceva strani sbuffi onomatopeici con le labbra socchiuse. lo guardavo assorto cercando di capire cosa stesse combinando nella sua innocenza infantile.

d'improvviso ha sbattuto le mani a terra, il viso imbronciato. qualcosa doveva essere andato storto nel suo piccolo mondo. la macchina era capovolta. doveva essere qualcosa di importante. abbiamo incrociato gli sguardi: gli occhi si specchiavano violenti e gli iridi cambiavano colore come infuocati. la sigaretta che tenevo fra le dita rosse e gelate si era spenta. l'odore del fumo si avventava sull'olfatto con una sottile cattiveria. le ombre ci preparavano alla guerra disegnando immagini tribali sui nostri volti.

cercavo il significato di tutto perché volevo capire ogni cosa. leggevo fra le righe della storia perché trovavo noiosa la trama della nostra vita. argomentavo con i più pazzi oratori per rivendicare l'ebrezza della discordia.
non ricordo molto di quel giorno, se non il caos che vorticava in ogni mia parola, in ogni mia espressione, in ogni mia certezza.

ci siamo guardati fino a sera, verde nel verde riflesso. eravamo così uguali che sembravamo estranei l'uno all'altro. ricordo il porfido ingiallire; la fame attaccare lo stomaco con una morsa tenace, come se non mangiassi da mesi. ricordo il bambino piangere, piangere come mai avevo sentito prima. ricordo il giocattolo abbandonato come non fosse mai esistito. aveva un aspetto malandato e stanco. le ferite degli anni l'avevano abbruttito così tanto, che a stento si riconosceva lo splendore che aveva alla nascita.

"sei triste?" - ho chiesto educatamente. il pianto si è fermato in un istante sibillino. tentennava a rispondere.

"no, non lo sono" - mi ha detto.

"perchè le lacrime allora? sei solo?"

"no, non lo sono"

mi ha guardato a lungo. mi guardava con rancore cercando di non esplodere contro di me.

"piango perchè sei triste" - ha sancito alla fine di un silenzio interrotto solo dai treni che si rincorrevano sulle rotaie arrugginite.

"vuoi giocare?" - era buio.

è stata l'ultima cosa che ricordo. non ho mai risposto. ho acceso un'altra sigaretta. un'altra ancora, mentre aspettavo che succedesse qualcosa. ma c'erano solo persone che andavano e venivano e treni che rombavano e saettavano colorati dai graffiti fatti con bombolette spray. era tutto un nuovo mondo, pur rimanendo sempre lo stesso.
il bambino era andato via. neanche mi aveva salutato. mi sono alzato stiracchiandomi, le ossa scricchiolavano sotto il peso del mio corpo; indolenziti i muscoli si riattivavano a fatica.

mi sono incamminato verso la città, con passo lento. le luci accese facevano sembrare le finestre tante piccole lucciole immobili, quasi fossi disteso in un prato d'estate. mi sono fermato un attimo, il fiato congelava ad ogni respiro, illuminato dalla luce al sodio dei lampioni.

"perché no?" - ho detto prima di incamminarmi di nuovo, mentre la mano in tasca stringeva una piccola macchina rossa con la vernice scrostata.

21 aprile 2010

Pointillisme

le giornate stanno prendendo il sopravvento sul tempo della vita. i minuti fagocitano se stessi con una voracità animale, il ticchettio dell'orologio da polso mi rincorre per i corridoi dell'università.

la mia sigaretta sta bruciando piano piano, appesa alle labbra socchiuse, consumandosi come l'incenso in chiesa. il fumo sale verso l'alto contorcendosi nell'aria tiepida della sera. riesco a vedere tutta la valle da dove sono: il verde degli alberi si dirada verso il fondo, trasformandosi in uteri di cemento armato e torrenti d'asfalto grigio. è come osservare un fotogramma di una pellicola d'epoca, trattata per restituirle colore e luminosità.

la biblioteca si sta svuotando per via degli stomaci affamati. le cerniere si chiudono velocemente e gli zaini scompaiono dai tavoli biancastri. le clessidre sugli schermi piatti sono l'ultima fatica dei computer rimasti accesi tutto il giorno, poi nero pece.

pensavo alla vita prima e alla vita dopo, quindi pensavo al niente. è l'attimo in cui comprendi il senso di tutto prima di abbandonarti al ritmo quotidiano, ancora e ancora. il momento di verità che fa da comun denominatore ad ogni giornata e che ti accompagna fino alle coperte rimboccate e al profumo intenso di pulito, che risuona nei sogni quando gli occhi schizzano a destra e a sinistra senza controllo.

le persone che vanno e vengono, senza mai fermarsi. le voci che ti rassicurano quando non sai cosa fare perché suonano familiari e ti ricordano l'infanzia. le scritte sbiadite sui diari di scuola che testimoniano come eravamo. le ginocchia sbucciate sul cortile d'asfalto: bastava soffiare, dicevano. che male! il profumo della torta appena uscita dal forno. i litigi per chi doveva impersonare il cavallo alato. il tuo profumo. il tuo sapore.

le macchine in coda sulla collina sono ancora ferme, sono piccole e lontane e mi ricordano tele ottocentesche: un sorta di pointillisme. è un dipinto in cui sono immerso senza affogare. è un'attimo di perfezione che scompare nell'istante in cui chiudo gli occhi per cercare di fissarlo sulla retina. quando lo cerco, di nuovo, è già sparito.

spengo la sigaretta consumata fino al filtro ingiallito, l'ultimo rumore che accompagna la mia giornata, e scendo a valle. fra cemento e asfalto.

16 aprile 2010

Grace is gone

sei distratta dalla conversazione con la tua amica, bionda statuaria truccata come una prostituta d'altoborgo. ogni volta che porta la sigaretta alla bocca increspa le labbra ruvide e colorate, disegnando un'espressione di disgusto misto a strafottenza. il bordo della sua minigonna si confonde con il collo del Montgomery che indossa. non ha niente da spartire con la tua bellezza sofisticata.

ascolti la sua risata acuta e intermittente come le lampade al neon di insegne luminose che hanno sponsorizzato per troppi anni il negozio sotto di loro. rispondi con leggerezza abbozzando un sorriso imbarazzato, come la prima volta che ci siamo stretti la mano. mi accorgo di non averti mai sentito ridere, non ti ho nemmeno mai parlato.

la platinata comincia a far strabordare la sua invadenza: quel suo corpo anoressico si sta gonfiando come un pallone aereostatico. come fai a sopportarla? sta volando a qualche metro dal suolo. io la vedrei bene tre metri sotto terra.

l'ossuta si dilegua in fretta con la scusa delle lezioni. ti stampa tre baci frettolosi sulle guance color carne, fingendosi dispiaciuta. allontanandosi scuote la mano e si mette gli occhiali da sole fra i capelli. i tacchi rimbombano sul selciato della terrazza, colonna sonora degna della sua uscita.

tu rimani lì, seduta, a guardarti la punta delle scarpe, gli occhi profondi color dell'autunno. i capelli sciolti s'infrangono sulle spalle minute. le labbra color ciliegia mosse da uno sbuffo. incroci le braccia, incroci il mio sguardo mentre sollevi la testa per cercare il sole. esito un attimo, per un momento mi perdo pensando a quello che vorrei dirti. gli studenti passano svogliati fra di noi annoiati dal chiacchiericcio dei professori, dev'essere finita l'ultima ora di lezione della mattina. il fiume di gente mi trascina via mentre tutto rallenta. saluto facce fin troppo conosciute. tu rimani lì, ad osservare il caos degenerare e ad ascoltare il vociare assordante.

ti immagino in molti modi, ogni volta una persona diversa dipinta con quel tocco di te che basta a farmi sorridere. ti immagino vivace e tranquilla, solare e introversa. compari improvvisamente nei posti più impensabili e sei una sorpresa ogni volta. sei una magia di cui non svelano il trucco e che continua a sorprendere ogni volta che si osserva. sei la fine melodrammatica di ogni storia d'amore che lascia caldo il cuore. sei la nuvola che gioca a imitare le forme più bizzarre mentre la si guarda da un verde prato estivo.

ti alzi e vai via saltando i gradini della scalinata a due a due. ti seguo stordito da quelli che mi circondano e mi chiedono cosa ho che non va. scompari dietro l'angolo della biblioteca con un tocco di mistero. fisso il muro sperando che ti sia dimenticata qualcosa, uno stupido pretesto per rivederti. caffè; ho bisogno di un caffè e di una sigaretta. ho bisogno di vederti una volta ancora, di scoprire qualcosa ancora. di parlarti con più di quattro lettere.

mi urlano qualcosa e mi accorgo di essere tremendamente in ritardo. rientro in aula. hanno cominciato senza di me. mi affretto a recuperare sbattendo penne e quaderni sul banco di fòrmica. un respiro profondo prima di cominciare. un altro ancora, l'ultimo.


6 marzo 2010

Speed

è da molto che non mi avvicino alla tastiera del mio pc per buttar giù qualche riga senza senso. da un po' di tempo me ne sto per i fatti miei. Preferisco ascoltarmi in silenzio, invece di battere rumorosamente i polpastrelli cercando di dar vita a uno sproloquio di senso compiuto.

se posso essere sincero, mi manca tutto quel frastuono. ma il tempo passa e la voglia si appassisce: un po' si disperde fra gli impegni quotidiani e un po' è offuscata dai fuochi pirotecnici che prepara la vita qui intorno. sto diventando pigro e come un'animale alle porte dell'inverno mi sto preparando ad un lungo letargo.

ho smesso di scrivere e cominciato ad osservare. occupo il tempo libero guardandomi attorno e ascoltando con fare dispettoso le conversazioni altrui. butto l'occhio per cogliere immagini che prima non potevo vedere. ed ecco che tutto cambia. cambia prospettiva, cambia forma, cambia suono, cambia e cambia e basta.

devo ammetterlo, sono un nostalgico. rimpiango i tempi passati per la loro dolcezza e mi lascio prendere dalla malinconia quando penso alla leggerezza di quei ricordi. vorrei fermare per un attimo il tempo chiedendogli pietà, chiedendogli di rallentare che qualcuno mal sopporta il viaggio e si sta sentendo male per tutte le turbolenze e gli scossoni. vorrei guardarlo in faccia per vedere il suo ghigno sornione e cercare nel contempo di scorgere nei suoi occhi quel brivido masochista che lo spinge a premere l'acceleratore.

ho sentito dire che molto di quello che è successo nel passato è attuale, va' preso ad esempio per i giorni nostri. io credo semplicemente che sia il presente ad essere passato di moda, che sia ammuffito sugli scaffali dove lo teniamo per paura di rovinarlo.
dicono che il futuro sia la nostra sola speranza. io credo che il futuro non sia altro che una bislacca predizione astrale, un rotocalco di giornale scolorito che annuncia qualche vaga buona notizia. lo teniamo stretto per confortarci ma come il presente prima o poi andrà a male, maciullato da un migliaio di viscide tarme che roderanno la cellulosa fino a consumarsi i denti e rovinarsi la digestione.

non riesco a stare al passo. non capisco come gli altri possano. ho provato ad affrettarmi, cercando di raggiungere il gruppo di testa ma sono stato staccato di nuovo. allora mi sono seduto e mi sono preso il mio tempo. inutile affrontare una maratona se è una vita che ti prepari per i cento metri. siederò al bordo della pista per un po' finché non avrò trovato soluzione alla mia inadeguatezza. ozierò per qualche tempo e mi godrò la gara: vista da fuori questa volta, biglietto non pagante.

per un attimo, la tranquillità del riposo..

2 gennaio 2010

Smiley face

quest anno me ne sono andato in silenzio. nessun post esistenziale e visionario, nessuna lettera a babbo natale, niente addii strappalacrime e buoni propositi per l'anno nuovo.

quest anno ho deciso di zittire la mia laconica vena creativa e di nascondere le mani dentro le maniche della camicia, abbottonandole per bene. ho salutato tutti agitando il braccio in alto, ma pochi hanno visto questo gesto spartano ma cordiale. per una volta mi sono seduto tranquillo dando il peggio di me, collezionando ogni vizio possibile: vedi il germe della follia nascere e morire dentro di te più volte nella vita e solo se sei fortunato capisci quando ti sei salvato. se rinascerai veramente questo lo deciderà la tua fervida intelligenza.

ho dolori sparsi in tutti il corpo, lievi acciacchi lasciati da un altro anno caricato di peso sulle spalle; perchè questi ultimi dodici mesi li ho sentiti tutti: non importa cosa sollevi, bene e male, buono o cattivo, la gravità attira tutto verso il basso, senza eccezioni. ho dolore perchè sono ancora cosciente, ancora giro gli occhi e vedo colori, stelle, alberi, verde, giallo, bianco, neve. sento la voce profonda di mio padre e vedo mia sorella sorridere e crescere.

sono arrugginito come una vecchia vite di ferro in vacanza sul fondo del mare, non so più scrivere o studiare come un tempo. ho lasciato atrofizzare il cervello perchè è più facile di combattere l'apatia di ogni giorno. mi sono preso del tempo per me, ed è stato importante. ho concesso del tempo ad altri, e ne sono stato contento. Ho fatto male, mi sono fatto male. sono guarito..

non voglio dilungarmi. ho imparato molto più in questo ultimo anno di quello che potevo sperare. ho imparato che il tempo decide ogni cosa e noi possiamo solo mettere a posto i dettagli. ho imparato che volere veramente non basta mai. non ho più niente da aggiungere se non un'ultima promessa, un ultimo singhiozzo di libertà scritto picchiettando sulla tastiera in una rumorosa sera d'inverno:

cercherò di essere più presente. punto. il resto verrà da sè, come ha sempre fatto e come non mi sono mai accorto..

mi lascio con un sorriso, il più caldo, il più dolce e maliconico sorriso del mondo; perchè di ogni immagine che passa per la mia testa matta, è la più bella e meravigliosa che potessi scegliere oggi.. un sorriso illuminato da una fredda sera d'inverno.