gli occhi stanchi sono ancora socchiusi per il poco riposo. le gambe pesanti. la spalla dolorante. questa mattina il risveglio è dei peggiori e la sveglia continua a suonare crudele dall'altro lato del letto. cammino piano fra le stanze ancora avvolte dal buio della mattina. accendo qua e là lampade elettriche che infiammano la loro resistenza, accendo il microonde e scaldo dell'acqua per un thé, sperando che mi aiuti a riprendere vita. dalla credenza prendo una bustina per infusi, pensando che fa abbastanza freddo per convincermi a vestirmi con qualcosa di più pesante della mia maglietta.
mi sono sempre piaciuti i calzini colorati, quelli a strisce, di cotone, che sembrano avvolgere i piedi con un arcobaleno. ricordano le giornate estive passate distesi su prati d'infinita tessitura verde che in autunno si riempiono di cilindrici mausolei di fieno giallo spento. sembrano tanti piccoli sepolcri che i contadini hanno deciso d'abbandonare per commemorare la natura che via via va spegnendosi in tinte calde come le braci di un focolare. e le braci ricordano i cibi cotti in un involucro di alluminio, semplici come la vita d'un tempo vissuta in case segnate dalle venature del legno e dal profumo di resina. e il legno ricorda alberi sinceri come il canto delle cicale le sere d'agosto, abbattuti da boscaioli rudi con asce e seghe dai denti spuntati.
quelle calze variopinte proteggono dal freddo invernale e scaldano la pelle nuda anche solo guardandole, mentre fuori dalla finestra pioggia bianca continua a scendere e i camini mischiano il loro fumo denso con la nebbia grigia che nasconde tutto quello che circonda con i suoi tentacoli informi. mi alzo dal letto in cui mi ero rituffato e giro l'angolo. le tazze enormi riposano a testa in giù su una pezza di tessuto, in cucina, dopo la colazione. alcune hanno qualche sbeccatura. una invece mette in mostra spigoli vivi di ceramica al posto del manico, esibendo la sua unicità in un mondo di tazze fatte tutte nello stesso modo.
sulla scrivania qualche libro aperto che svogliato racconta delle formule matematiche di dubbio gusto, e in un angolo nascosto dall'ombra della lampada da studio, un disegno a matita che ritrae un viso d'angelo, distratto a guardare nel vuoto e a nuotare in pensieri così lontani che se parlassero s'udirebbero appena. i tratti neri e grigi si intrecciano dando vita a una trama di grafite così fitta che a stento si riescono a distinguere i segni. le matite s'incrociano in rigidi origami astratti e lì vicino, quasi come intrusa, una penna blu senza il suo cappuccio.
cercavo qualcosa questa mattina, nel mio agitato pellegrinaggio domestico. cercavo di comprendere l'intero universo dal fondo della scatola da scarpe in cui siamo stati rinchiusi. cercavo una parola per definire un qualche concetto che nemmeno ricordo. pensavo a un susseguirsi di suoni che riempisse la bocca per distrarla dal silenzio del luogo in cui mi trovavo. cercavo il senso delle cose nel fiocco di neve che sboccia da una goccia d'acqua nata dal fondo del mare. forse cercavo un senso e basta, senza troppi fronzoli o abbellimenti vari. mettere una bella cornice ad un'opera d'arte non fa che svilire il lavoro dell'artista, perchè ogni cosa deve presentarsi sincera ed onesta se vuole mantenere la sua integrità. cercavo tutto questo, e nulla più.
è tardi. prendo una quaderno che sa d'impressionismo e lo nascondo nello zaino mentre esco di corsa ascoltando una canzone di cui non ricordo il titolo, e perdendomi nelle sue note confuse mi torna in mente che questa mattina, ricadendo nella realtà, cercavo un sogno dentro un sogno, per cullare la giornata che si affacciava impertinente da dietro una montagna.
Nessun commento:
Posta un commento