3 novembre 2015

Stillness



- "Cosa cerchi in fondo a quella tazza?"

Sbatto gli occhi velocemente e guardo mia sorella. Non so per quanto tempo ho fissato il cerchio lilla lasciato da una tisana di un non ben precisato gusto. E' uno di quei momenti in cui ti perdi in un'immagine, una qualunque, finché qualcuno non te ne tira fuori a forza con un brusco scossone. Hai messo in pausa il mondo dal suo continuo movimento e sarebbe giusto che solo tu decidessi quando restituirgli vita, ma quaggiù non ci è concesso molto e questo di certo no.

- "Vestiti, che dobbiamo andare! Sei pronto?", sento rimbeccare dall'altra stanza. 

Mi alzo svogliato. Devo sempre andare da qualche parte ultimamente. Il medico, in palestra, in università. Alla fine della giornata vedo tutti i posti assomigliarsi come nelle foto delle riviste di design. E' tutto uguale, tutto ripetuto, ritmato, reinterpretato. Persino i dettagli che dovrebbero distinguerli l'uno dall'altro finisco per essere occhi senza colore o dita senza impronte, tutti uguali come piccole perle sferiche, perfette, appese come decorazioni impercettibili ai lobi delle stanze e degli atrii.

- "Sempre in ritardo sei... Ti vuoi muovere?"

Non sopporto più le domande. Poche sono interessanti e ancora meno sono quelle intelligenti. Le persone ti chiedono sempre le cose più ovvie. Non hanno il coraggio di approfittare nemmeno dei rapporti più stretti per paura di incrinare l'intimità conquistata a fatica nel tempo. L'intimità non è altro che una corda sospesa nel vuoto tesa fra persona e persona. Se vuoi avvicinarti non devi avere paura dei passi da fare, anche piccoli. Devi testare l'equilibrio.

- "Hai voglia di uscire? Altrimenti io sto anche a casa eh!", minaccia con voce acuta mia sorella. 

Comincio a spogliare i vestiti nell'armadio e decido per colori tenui, quasi anonimi, ma delicati. Equilibrio; è sempre stata una parola che racchiude in sé un'incredibile forza, una magia arcaica che si perde nel rumore delle serpentine dei refrigeratori, delle marmitte delle automobili, nelle persiane elettriche che si abbassano al tramonto per nascondere le viscere delle nostre abitazioni piene di quelle stanze identiche fra loro, identiche a se stesse. Appese alle finestre solo nuvole di stoffa, ancorate alla realtà che custodiscono immobili, sempre sull'attenti e senza ombre o pieghe. Nella loro austerità si nasconde la tristezza velata di chi non vuole condividere i segreti che gesta in grembo, come un vigliacco, da tempo immemore e forse da più di una vita intera.

- "Lavala quella tazza, per favore... "

Non mi va. Non voglio togliere quello che è stato aggiunto anche se superfluo, come un cerchio colorato, qualche increspatura di colore sui bordi, la riga irregolare di una goccia scivolata sulla ceramica lucida. 

- "Allora, andiamo?", dice impaziente.

Sono ancora indeciso, rallentato. Mi chiedo se in quella sospensione, nella solennità di quell'attimo in cui tutto era immobile cercavo un indizio di felicità, illudendomi di trovarla sul fondo di una tazza di primo mattino. La felicità è un fiore di carta nato da infinite pieghe che muore nell'istante stesso in cui si schiude, muore nel fuoco vivo del rancore covato dal mondo intero. Ogni petalo si contorce e si fonde con la fiamma, dissolvendosi in frammenti di cenere che volano in vortici al cielo. La felicità è come la perfezione: rapida, veloce. E' la sensazione dell'eterno che filtra l'essenza della gioia condensandola in una lacrima di estasi. E' un istante, nulla più di un istante. 

- "Eccomi, arrivo, devo solo prendere il cappotto..", rispondo.

Il cappotto di lana mi fa sentire subito al caldo, una coccola inaspettata. Appena metto piede fuori dalla porta mi si gela il viso, la pelle fredda. 

- "Corri che arriva il bus..", suggerisce mia sorella, e scompare a grandi passi.