17 agosto 2010

Sea

la luna macchiata di caffè ancheggia nel cielo pieno di lucciole distanti anni luce. è tardi, l'orologio degli umani scandisce le ore svogliato, non dorme mai e sbadiglia ad ogni rintocco sordo, mentre quello degli dei riposa senza lancetta alcuna. è ovale, color ciano, con una grande pancia scoperta. il silenzio serpeggia per le strade deserte, benedicendo le case con le tapparelle abbassate. lontano, da qualche parte, un treno viaggia guidato da un conducente distratto che sta leggendo un libro di poesie d'amore scritto in francese, sottovoce.

in piedi vestito di un pigiama sgraziato cerco qualche pagina di conforto, invecchiata sulle mensole di rovere. cerco lettere scritte dai soldati al fronte alle loro famiglie, vaneggiamenti urbani di pederasta con il pallino della storia della loro nazione, sonetti di nobiluomini inglesi composti in epoca vittoriana. quando finalmente decido di sedermici, la poltrona sprofonda, soffiando stanca. il salotto profuma di buono, come se dei semi di cacao si fossero uniti in matrimonio con baccelli di vaniglia per deliziare il mio olfatto.

se nel partire avessi salutato i tuoi occhi color abete persi nel vuoto dell'addio con una canzone, da un vagone in movimento sulle rotaie della tua vita, mi ricorderesti ancora con rabbia? e se fossi stato indulgente con le attenzioni assillanti, così forti da rompere il muso duro che stampavo sul mio viso, mi rivorresti indietro, Monnalisa?

il mio ritorno è solo per te: stavo bene dove ero e non avevo bisogno di nessuno. nessuno, nessuno, nessuno. ero un negro che ballava e cantava suonando tamburi di pelle d'animale alla luna coraggiosa del mio continente, della mia isola - solo mia! - in cui nessuno poteva avventurarsi se non con il timore di lasciarsi ogni cosa alle spalle. io sono sempre stato un nibbio orgoglioso e volavo rasoterra spaventando tutti. perchè, mi chiedi? perchè mi andava, tesoro! perchè volevo beccare la gola dei topi randagi che si mettevano sulla mia strada pensando di poter scappare cercando rifugio nelle loro tane buie, sotterranee. e io, ben lo sai, non cercavo cunicoli in cui infilarmi.

e tu, Mononoke, mi terresti nella tasca dei tuoi pantaloni, quella cucita da tua nonna prima di morire e rinascere come daino, se potessi? mi terresti stretto a te, nascosto da tutto il caos della tua metropoli, costruita dagli uomini per distrarsi a vicenda? mi terresti al sicuro del tuo affetto disinteressato, che doni anche al primo idiota che ti sorride e ti dedica una canzone? lo merito, sai?

posso farlo anch'io e sarebbe la più bella canzone che tu abbia mai ascoltato; perchè la mia non parlerebbe d'amore ma di me e te, semplicemente. non sarebbe messa in musica ma suonerebbe per sempre nella tua testa, ogni qualvolta penseresti al nostro primo appuntamento - sotto le stelle di Novembre - e se qualcuno tentasse di rubartela tu potresti dire che non è mai esistita, perchè tutto il mondo messo assieme in silenzio comunque non potrebbe sentirla.

posso fare mille e mille cose per te, Principessa, ma tu continueresti a regalare sorrisi al primo uomo che porge una rosa sbiadita, che ti compra con un po' d'attenzione nel meriggio stanco della tua giornata. e allora se ci fossimo incontrati in un altro tempo, allevato da madre serenità, ci saremmo amati con la stessa passione? se ci fossimo incontrati in un giorno di pioggia, riparati da grandi ombrelli tondeggianti, ci saremmo fermati a parlarci con voce rotta dall'emozione? se anch'io avessi giocato con te avrei ottenuto un tuo bacio? non l'avrei voluto, sai, ad ogni modo.

perchè? - ti chiederai...

perchè non posso smettere di cercare un amore vero che non so trovare. non perchè non esista per me, ma perchè sono troppo distratto e svogliato per impegnarmi a coltivarlo e preferisco gioire della mia risata dolce che allieta i pomeriggi, piuttosto che lavorare come uno schiavo devoto alla monotonia di una storia di due persone un tempo amanti sinceri. perchè ho bisogno di un mare in cui perdermi prima di trovare qualche risposta. perchè ho bisogno del mio sole e della mia ombra, del mio pasto frugale e del mio libro muffito sulle ginocchia. perchè come un neonato piango ogni volta che vengo al mondo e devo soddisfare il mio desiderio edonistico di corteggiare ogni donna dalle labbra colorate di rosso.

perchè come te, Nausicaa, non posso esser di nessuno, se non di me stesso..

12 agosto 2010

Dream

le labbra sottili si muovono ondeggiando sul viso pallido, che contrasta con l'abbronzatura appena accennata del corpo stanco. la voce trema imbarazzata e i secondi prendono le sembianze di una grigia era geologica. lo stregone ha pronunciato il suo verdetto dalle colline gialle come il grano e rosse come campi di papaveri sterminati. la pelle si rizza facendo sembrare lo spaventapasseri di paglia un gatto impaurito. gli uccelli si levano in volo maestosi spiegando le ali lunghe metri e metri e oscurando il cielo rabbioso. piove cenere girgia e il vento scoperchia le teste mostrando cervelli rosei irrorati di sangue d'animale.

qualcuno è chino a vomitare fra imprecazioni e gridi d'odio che raggiungono lo stregone alla velocità del supersuono. le spade e gli scudi vengono battuti come piatti sulle armature e sugli elmi che si infiammano bruciando le pupille incredule dei più deboli. il fuoco dell'ambizione crepita mentre le bestie assonnate sudano e bisbigliano preghiere sottovoce. le braccia dello stregone piene di campane e campanelli e campanacci si muovono frenetiche facendo cadere a terra un milione - no! - un miliardo di tintinnii. rotolano e ruzzolano giù dalla colline blu come il cobalto più puro delle miniere del nord. i bambini si rifugiano sotto le giostre arrugginite del parco sporcandosi le mani e le ginocchia di fango.

i guerrieri della notte non possono più aspettare e escono al crepuscolo, compatti; come legione di missionari animati dalla fede cantano inni alla gioventù passata a distruggere fegati e polmoni e pancreas e reni. cantano malinconici come gli innamorati prima di lasciarsi e baciano le loro mogli e le amanti come se dovessero morire oggi. ma lo stregone ha parlato: nessuno ha la spada di damocle appesa sopra le cervella. le vecchie, i cui occhi vedono ormai chiazze di colori ingialliti dal tempo e dal dolore, cuciono vestiti da sposa per le loro figlie. sono belli come i diamanti tagliati dai mastri olandesi, ornati di pizzi e merletti, alcuni con sbuffi che si appoggiano annoiati uno sopra l'altro. il filo passa fra i tessuti come se avesse memoria del percorso da seguire, si incrocia e si nasconde, alle volte veloce e silenzioso come il felino sulle tracce della preda, altre maldestro come un obeso in una cristalleria di gnomi irlandesi.

il corno richiama i pretendenti sul campo di battaglia. lo spaventapasseri incrocia gli occhi e storce il naso. i drappi di stoffa che pendono dai vestiti lerci sventolano come bandiere multicolore, una per ogni razza della nazione. intona un requiem per i caduti della battaglia dei grandi monti. sa che riposano custoditi dalla neve e percorsi da brividi gelidi per punizione all'arroganza delle loro pretese. un agricoltore paesano non può combattere se non con zappe e badili in sella a ciuchi che ragliano e si vendono per una mezza carota.

lo stregone mette a bollire una pentola d'acqua d'oro zecchino con larghe maniglie che pendono ai fianchi. accatasta legna, sempre di più, getta abiti, libri di religione e di politica, stinchi di cadaveri, femori rubati da tutti gli ossari del mondo. brucia poesie e pometti d'amore, brucia le parole dei saggi che hanno cantato la bellezza delle stelle delle sere d'agosto e la dolcezza del canto delle cicale. brucia i quadri dei grandi accademici liberando le figure immortalate nelle tele. brucia le tempere e i colori ad olio, le batterie ossidate dei camion che viaggiavano sulle autostrade del futuro da città in città; brucia i chilometri percorsi dai viaggiatori incalliti con le loro tende e i loro sacchi a pelo. brucia i viaggiatori stessi che stanchi hanno ceduto alle litanie del dio orfeo. dà alle fiamme i miti degli uomini e degli orchi, i trapezi dei nomadi circensi e le sbarre d'acciaio delle gabbie, i lucchetti di tutti i cancelli delle pianure meridionali.

in preda all'estasi del distruttore scava a mani nude una fossa profonda come l'inferno, le unghie sporche di terra. vi seppellisce le esequie delle religioni pagane, onorandole con una lacrima che si trasforma in fiume di speranza. mette la mano in tasca e con un gesto degno del più teatrale prestigiatore estrae un flauto di ebano, che porta alle labbra mentre dilata il diaframma.

suona un blues stonato e le fiamme cominciano a ballare al ritmo malinconico di quella melodia. le distese d'erba diventano indaco intenso e arcobaleni sbiaditi spuntano come piante di fagioli messicani e a poco a poco prendono colore. lo stregone ne afferra uno per la coda e lo pizzica come un strumento a corde. è il tempo di danze latinoamericane! gli aborigeni delle isole dei monsoni lanciano gli scudi e abbandonano le lance avvelenate ammansiti come serpenti a sonagli. i vichinghi della penisola degli orsi bianchi innalzano i boccali di sidro e li scolano d'un fiato. nessuno deve morire, non oggi.

lo stregone riempe la fossa con l'acqua incandescente e si tuffa. nuota fino al fondo, sembra un delfino dell'oceano indiano, e riemerge poco dopo, vestito con un completo nero cucito su misura e le scarpe di pelle di pitone, appuntite con un temperino comprato al mercato delle pulci. lo stregone è diventato un mago. le feste proseguono condite di alcool e erba, di suoni e schiamazzi. nessuno è morto, non oggi almeno. lo stregone si siede e appoggia la schiena sul cumulo di carboni ardenti.

"cosa vuol dire sognare?" - mi chiede mentre si accende una sigaretta.

"sognare è suonare un arcobaleno su colline color indaco." - rispondo.

"prendi..." - e mi porge il pacchetto.